Un film di Mario Bonnard. Con Luigi Tosi, Constance Dowling, Elio Steiner, Attilio Dottesio,
Felice Minotti, Gustavo Serena, Milly Vitale, Gianni Rizzo, Pina Piovani
Drammatico, b/n durata 106 min. - Italia 1949.
TRAMA
Adesso
Rossana Rossanda, nella sua autobiografia La ragazza del secolo scorso,
può anche permettersi di ironizzare sullo «sconcerto delle anagrafi»
rispetto al suo luogo d'origine: «nata a Pola (Italia), a Pola
(Iugoslavia), a Pola (Croazia)». Ma nell'immediato dopoguerra, quando
gli accordi di pace spostarono i confini italiani verso Trieste
obbligando 30 mila persone circa ( più di 300 mila nell'Istria, Fiume e
Dalmazia) a lasciare la città istriana, la situazione era vissuta con
ben maggiore drammaticità. Tanto da diventare una storia degna di
essere raccontata in un film, che oggi torna alla luce dopo anni in cui
sembrava sparito nel nulla.
Si intitola La città dolente e fu
diretto tra il 1947 e il 1948 da Mario Bonnard ma soprattutto fu
scritto da un gruppo di sceneggiatori dove spicca il nome di Federico
Fellini, accanto a quello di Aldo De Benedetti (tornato a firmare dopo
l'ostracismo imposto dal Fascismo in quanto ebreo), di Anton Giulio
Majano (il futuro papa degli sceneggiati tv) e dello stesso regista. Un
film strano, anomalo, dove la propaganda si mescola al documentario, il
melodramma alla ricostruzione storica. Un film che rimase bloccato per
un anno prima di uscire (in prima fu il 4 marzo 1949) e finì presto
dimenticato. Proprio come gli esuli italiani, se «nel 1960 — quindici
anni dopo la fine della guerra — ci sono ancora dodicimila persone nei
campi profughi», come scrive Guido Crainz in Il dolore e l'esilio.
Solo
e unico film che parla dell'esodo da Pola, girato immediatamente a
ridosso dei fatti raccontati, La città dolente (titolo quanto mai
azzeccato) si inventa la storia del meccanico Berto (interpretato da
Luigi Toso) che decide, mentre tutti partono, di restare a Pola con
moglie e figlio neonato sperando nel socialismo di Tito. Naturalmente
la realtà si rivelerà ben diversa, il paradiso socialista diventerà un
inferno, moglie e figlio riusciranno a partire per Venezia grazie al
buon cuore di una ispettrice comunista (Constance Dowling, la stessa a
cui Cesare Pavese dedicò Verrà la morte e avrà i tuoi occhi), ma la
medesima ispettrice manderà Berto in un campo di lavori forzati, per
«essere rieducato». Una storia melodrammatica, in certi momenti
apertamente propagandistica eppure mai superficiale o becera, anche
quando mostra l'arroganza dei comunisti iugoslavi o la legge marziale
messa in atto nel campo di concentramento.
«Sono molte più le
domande che il film pone, delle risposte che offre» sostiene Sergio
Grmek Germani, che ha recuperato il film dagli archivi del Luce per
presentarlo al festival triestino di I mille occhi: «Forse il dramma
storico è stato più forte della finzione cinematografica, certo è che
il film non scade mai nella caricatura, nemmeno nelle scene più a
rischio come la notte che precede la fucilazione dell'ex kapò. Mentre
invece le parti documentarie sanno trasmettere perfettamente la
tragedia di Pola, vera città dolente». Perché il merito maggiore del
film, che la Cineteca del Friuli si è incaricata di restaurare, è
proprio quello di aver «restituito» alla visione molte scene girate nei
giorni reali dell'esodo da operatori di cinegiornali come Enrico
Moretti e Gianni Alberto Vitrotti. La sequenza che non si dimentica più
è quella della dissepoltura delle casse da morto dai cimiteri, per
portarsi in Italia anche i resti dei propri cari, ma quasi altrettanto
drammatiche sono le lunge file di profughi che spingono mobili e
materassi ammassati su carretti di fortuna, o i volti senza gioia dei
bambini che si imbarcano sulla nave Toscana, che fa la spola tra
l'Istria e Venezia. Immagini che l'allora giovanissimo Tonino Delli
Colli (era il suo ottavo film come direttore della fotografia) riesce a
fondere perfettamente con il resto del film, girato in parte negli
stabilimenti Scalera di Roma in parte in esterni.
Restano aperte le
tante domande che il film pone, dalla partecipazione di Fellini a una
sceneggiatura così lontana dalle sue corde (per amicizia con Bonnard
ipotizza Kezich) e proprio negli stessi anni in cui pubblicava vignette
violentemente anticomuniste sul Travaso, fino all'unicità del soggetto
affrontato (il fallimento degli italiani rimasti in Istria e la
pressochè distruzione totale della secolare presenza italiana nella
regione, l'oppressione titina, i campi di concentramento) nonostante la
violenta propaganda anticomunista che in quel periodo attraversava
l'Italia. Ma forse l'esodo da Pola e più in generale il ridise-gnamento
dei confini orientali del nostro Paese era un argomento su cui quasi
nessuno si sentiva di speculare: troppe le sofferenze subite, troppi —
da una parte e dall'altra — gli scheletri da tener nascosti negli
armadi. Rimane un film che ha l'unicità di essere un documento storico
senza precedenti.
Dedicato ad Alida Maria von Altenburger von Markenstein und Frauenberg ( Alida Valli ) , orgoglio degli italiani d'Istria.
(Paolo Mereghetti)
A/V 7,5
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